di Raffaello Lupi
Sommario:1. Le proposte della commissione e i veri punti di divergenza – 2. Il ruolo del giudice in una funzione non giurisdizionale.
- Le proposte della commissione e i veri punti di divergenza
Le divergenze all’interno della commissione interministeriale cui sono dedicati i presenti articoli partivano tutte da posizioni meritevoli di considerazione, come è emerso anche nel dibattito in webminar del 21 luglio u.s. con alcuni membri della commissione. C’era una convergenza generale sulla necessità di un giudice preparato in materia tributaria e dedicato ad essa a tempo pieno, cioè senza altre parallele occupazioni; il mantenimento a regime di magistrati onorari in primo grado è una sfumatura della proposta di minoranza (dei giudici). Questa differenza sfumava rispetto alla riutilizzazione, anche da parte della proposta di maggioranza (dei tributaristi), dell’esperienza maturata dalle attuali commissioni tributarie. Tutti riconoscevano infatti che in esse molti giudici hanno imparato la materia sul campo, essendovisi anche appassionati, confermando le convergenze suddette.
Le divergenze riguardano questioni che agli inizi del suddetto webminar ho definito scherzosamente di pubblico impiego , anche per sdrammatizzarle, ma che hanno un alto valore simbolico e istituzionale, su come collocare le suddette condivise esigenze negli assetti ordinamentali della giurisdizione, anche con riflessi costituzionali.
Sul piano costituzionale, una volta riconosciuta natura giurisdizionale alle attuali commissioni tributarie, sono forti gli argomenti per la legittimità di trasformare una magistratura onoraria (part time) in una magistratura a tempo pieno con proprio reclutamento e status. Chissà cosa sarebbe accaduto se la giurisprudenza costituzionale, che ha salvato le commissioni di cui alla riforma tributaria del 1972, si fosse trovata di fronte all’istituzione di una nuova magistratura, da conciliare con le disposizioni costituzionali ordinarie sull’ordinamento giudiziario. Il carattere onorario, cioè part time, di tali commissioni, ha consentito di affermarne la natura giurisdizionale, con sentenze politicamente necessitate per salvare l’esistente. Tali sentenze hanno potuto cioè evitare di affrontare i problemi costituzionali della creazione di un’ulteriore magistratura con un proprio ordinamento istituzionale, che vada al di là dell’attuale consiglio di presidenza della Giustizia Tributaria. Al di là delle suddette mie provocazioni sul pubblico impiego, il giudice tributario a tempo pieno pone cioè problemi istituzionali di ordinamento giurisdizionale che le precedenti commissioni non ponevano, proprio in quanto onorarie; esse erano tali in quanto formate da estranei all’ordine giudiziario, i c.d. laici, oppure da appartenenti agli altri ordini giudiziari. Il reclutamento per concorso di giudici a tempo pieno incide quindi sull’assetto dell’ordine giudiziario con una serie di problematici coordinamenti, che travalicano la ridotta e diluita nel tempo consistenza numerica delle assunzioni.
Bisogna in proposito domandarsi laicamente quale fosse il modo migliore per dare alla materia un giudice sostanzialmente competente, cioè preparato nel settore tributario, tenendo conto di una pluralità di parametri. Tra essi inserisco non solo il bagaglio di conoscenze/esperienze creatosi nelle commissioni tributarie e di cui diremo, ma anche l’assetto del diritto tributario. Quest’ultimo rileva per lo svolgimento di prove d’accesso in numerose magistrature, compresa una prova scritta per quella amministrativa. Occorrerebbe valutare la tradizione del diritto tributario, la sua esperienza professionale, la sua accademia, la sua manualistica, la sua pubblicistica tecnica, e vari altri profili per comprendere in quale misura una prova d’accesso contribuirebbe alla suddetta auspicata padronanza sostanziale dei contenuti e all’inquadramento delle controversie sottoposte al neo-giudice. Non mi sembra che la manualistica universitaria e la pubblicistica dottrinal-professionale, dalle riviste accademiche a quelle c.d. operative, colgano il cuore della funzione tributaria per un’appagante prova selettiva. Non mi pare infatti colta l’essenza della funzione tributaria, riguardante le entrate pubbliche rappresentate dalle imposte e la determinazione giuridica dei loro presupposti economici (reddito, consumo, ricavi, etc.). Del tutto trascurato mi sembra cioè il c.d. oggetto economico della funzione tributaria, che non comporta rinvii all’economia, generale o aziendale, ma richiede riflessioni giuridiche oggi del tutto carenti. Si tratta della specificità della funzione tributaria rispetto agli altri settori del c.d. diritto amministrativo speciale, come l’istruzione, l’urbanistica, l’ambiente, i beni culturali, la sanità ed altre funzioni pubbliche non giurisdizionali; come tali intendo quelle che traggono la loro giuridicità dall’esercizio di incarichi pubblici, da esercitare in base a valori e regole, in modo socialmente valutato, e dove il giudice non è l’istituzione di riferimento. Basta un minimo di cultura spazio-temporale per rendersi conto infatti che le rimostranze contro il cattivo esercizio di pubbliche funzioni si indirizzano in prima battuta alle gerarchie politico-amministrative, che eventualmente delegano organi di contenzioso amministrativo da esse dipendenti; è tra l’altro una tradizione secolare della determinazione delle imposte, in cui bisognava dare uno sfogo alle rimostranze connesse alle diverse determinazioni, all’epoca valutative (c.d. estimazione) dei suddetti presupposti economici. Solo in circoscritti assetti pluralisti il sistema di controlli e contrappesi delle società complesse, talvolta denominato “stato di diritto”, si spinge ad un giudice delle pubbliche funzioni gerarchicamente indipendente dalla politica.
Il diritto tributario è una di queste funzioni non giurisdizionali, probabilmente la più corposa, sulle cui particolarità si sarebbero dovuti personalizzare molti principi generali del diritto amministrativo. Pur rendendosi conto di quanto sopra l’accademia del diritto tributario si è invece posta in prospettive da un lato privatistico-giurisdizionali, e dall’altro sociologico-economicistiche, variamente combinate. C’è stata una separazione dall’alveo dello studio giuridico sociale delle funzioni pubbliche, come spiego al par.4.3 del mio volume La funzione amministrativa d’imposizione nel quadro delle pubbliche entrate-Spiegazioni giuridico sociali e tecniche di determinazione dei presupposti economici d’imposta, scaricabile qui in accesso aperto https://didatticaweb.uniroma2.it/it/files/index/insegnamento/188769/27335 .
Questo sfasamento teorico dello studio del diritto tributario alimenta fondati dubbi sull’idoneità del materiale formativo disponibile in materia per alimentare culturalmente la neo-magistratura ipotizzata dalla relazione di maggioranza della commissione; l’utilità della prova d’ingresso lascia perplessi anche per l’aggiunta di economia aziendale, materia estranea ai rapporti giuridico sociali interni all’azienda, nonché tra essa e istituzioni/stakeholders. La relazione di maggioranza appare cioè ottimistica nel presupporre un sapere organico del settore tributario da mettere a base dei concorsi di ammissione. A mio avviso invece il sapere specialistico tributario non è abbastanza messo a fuoco, né consapevole di se stesso, per potervi fondare una quarta giurisdizione. Si può cioè dubitare che i giudici tributari a tempo pieno vincitori dell’ipotizzato concorso d’ingresso possiedano la preparazione specialistica universalmente desiderata. A quest’ultima dovrebbe contribuire, in capo ai neomagistrati vincitori, il training on job nelle attuali commissioni, in cui sarebbero via via distribuiti, nella lunga fase transitoria ipotizzata dalla relazione di maggioranza. Questo indica che forse proprio nelle attuali commissioni, giustamente criticate, si è sedimentata una tradizione culturale più solida di quella sopra indicata per la dottrina. All’interno delle commissioni operano infatti appartenenti ai vari ordini giurisdizionali che nei decenni, pur con tanti infortuni, hanno inconsapevolmente sedimentato una tradizione. Quest’ultima è molto minore di quella esistente in altri settori del diritto, come quello penale, ma ha una qualche consistenza. Si sarebbe quindi potuto impiegare a tempo pieno chi aveva già acquisito on job una sensibilità specialistica, utilizzando alcuni esperti giudici togati delle commissioni. Essi avrebbero potuto costituire il primo nucleo di una sezione specializzata della magistratura ordinaria, in luogo dei suddetti magistrati a tempo pieno assunti per concorso esterno in una nuova magistratura speciale. Avremmo avuto magistrati già esperti in grado di operare a tempo pieno, operando con distacchi per i magistrati contabili e amministrativi. La risposta dei circa 1700 togati con esperienza nella magistratura tributaria avrebbe forse potuto essere sufficiente rispetto alle 100 posizioni l’anno di magistrati a tempo pieno; se non lo fosse stata si sarebbe potuto aprire un concorso riservato con contenuti tributari ai circa diecimila tra magistrati ordinari, amministrativi e contabili in servizio. Il tutto cioè senza avviare l’ulteriore neo-magistratura su cui si mostra giustamente perplesso anche Claudio Consolo. L’aspirazione della proposta “di maggioranza” ad una preparazione tributaria specifica avrebbe cioè potuto essere collocata nel quadro di chi è già giudice, articolando ulteriormente le mansioni in relazione alla domanda di “servizio giustizia”. L’ordine giudiziario è infatti già abbastanza frammentato tra ordinario, amministrativo e contabile e su questo sarebbe bene, al di là dei condizionamenti dell’esistente e del diritto tributario, aprire nelle università una serena riflessione giuridico sociale. L’occasione è anche la discussione sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati penali giudicanti, peraltro ispirata da ragioni di indipendenza reciproca, e di garantismo penale, non di diversità di saperi. È invece la parziale diversità di saperi che potrebbe giustificare una specializzazione di carriere, all’interno di un’ipotetica unica magistratura, tra specificità penali (inquirenti e giudicanti), civili e amministrative, comprensive di questioni contabili (corte dei conti) e tributarie. In margine alla discussione sull’ipotetica ulteriore magistratura tributaria si tratterebbe di indagare in quale misura l’unità della magistratura, e la sua indipendenza dal potere politico, siano compatibili con varie specializzazioni interne, sul modello tedesco evocato nel webinar da Enrico Manzon. Queste specializzazioni potrebbero anche portare a una specificazione delle prove di accesso, oggi difficile “barriera all’ingresso” degli ordini giurisdizionali, con notevole mobilità successiva. Forse invece l’efficienza della macchina della giustizia potrebbe aumentare con una base comune di accesso e varie specializzazioni, contestuali o successive, soggette a prove specifiche. E’ l’ottica di una formazione permanente, soggetta a scrutinio, all’interno dell’ordine giudiziario, dando sfogo controllato al legittimo desiderio di chi volesse modificare le proprie attività.
Abbandonando scenari concettuali globali, e tornando alla magistratura tributaria, la gestione dell’esistente, che ispira la politica, consiglia di incardinare l’auspicata preparazione tributaria sulle giurisdizioni già in essere. Per chi già sia giudice, e voglia dedicarsi a tempo pieno alla funzione tributaria, la relativa sensibilità non è difficile da raggiungere, e potrebbe essere accertata con una prova d’ingresso, più gestibile del concorso specifico per i neomagistrati tributari reclutati dall’esterno. Non mi sembra il caso di insistere in una ricerca di specificità che non ha portato fortuna agli studi tributari; questi ultimi, cercando giustamente la propria identità rispetto all’economia dei tributi, si sono separati dallo studio generale delle funzioni amministrative, cadendo in una trappola privatistico-giurisdizionale e in un destabilizzante isolamento. Quest’ultimo riduce il diritto tributario ad una specie di oggetto misterioso anche agli occhi degli altri operatori del diritto; da un punto di vista giuridico sociale occorrerebbe invece muoversi in senso inverso, accorpando le accademie nei modi indicati al par.2.6 del mio Studi sociali e diritto scaricabile qui in open access https://didattica.uniroma2.it/files/index/insegnamento/188770-Scienza-Delle-Finanze. La giurisdizione tributaria autonoma non farebbe neppure, a ben guardare, l’interesse dello stesso diritto tributario, aumentandone l’isolamento suddetto, tra le materie privatistiche, pubblicistiche e processualistiche. Esso sarebbe come oggi costretto ad affrontare da solo temi comuni alla generalità delle funzioni pubbliche. Tra questi anche la tutela contro il cattivo esercizio del potere , in cui si inquadra il ruolo del giudice nella funzione tributaria, di cui al punto seguente.
- Il ruolo del giudice in una funzione non giurisdizionale
La commissione, concentrata sui problemi istituzionali sopra descritti, non poteva certo interrogarsi sui profili concettuali anticipati al punto precedente, cioè il posto del giudice in una funzione non giurisdizionale, nel senso sopra chiarito. La mancanza di accenni a questo profilo, ed anche gli equivoci nell’interlocuzione con alcuni colleghi, confermano la già indicata solitudine culturale dell’accademia tributaristica rispetto alla discussione generale su rimedi verso l’ipotetico cattivo esercizio dei pubblici poteri. Questa cornice generale su cosa deve fare il giudice avrebbe anche potuto essere d’ausilio nella suddetta accesa discussione su chi debba fare il giudice tributario.
Nella relazione della commissione echeggia spesso un equivoco di fondo, diffuso anche oltre l’ambiente tributario, cioè concepire l’intervento del giudice secondo le logiche della funzione di giustizia privatistica (ne cives ad arma veniant), per risolvere le controversie salvaguardando la “pace sociale”, senza esercizio privato delle proprie ragioni ( autotutela privata), ritorsioni , faide ecc. L’equivoco è quello di concepire l’intervento del giudice tributario come un’estensione alle pubbliche amministrazioni della suddetta necessità di comporre conflitti tra privati, trascurando quanto detto al punto precedente sul giudice amministrativo come evoluzione di rimedi politico-amministrativi relativi al cattivo esercizio di altre funzioni pubbliche. Qui la parità sostanziale si raggiunge attraverso la valorizzazione delle diversità tra ricorrenti privati ed esercenti pubbliche funzioni, ivi compresa incidentalmente la magistratura inquirente. Il processo sulle funzioni non giurisdizionali è in altri termini “giusto” non perché presuppone una fantomatica parità, ma perché valorizza le concrete disparità, anche in materia tributaria. Anche il giudice tributario indipendente, dalla politica è il punto d’arrivo, come quello amministrativo, di un percorso di reclami gerarchico politici in cui si è evoluto pian piano il sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) che caratterizza la ripartizione di competenze di uno stato moderno; è un processo avviato già nello stato assoluto, che non significava ingerenza casuale e estemporanea del sovrano in tutte le questioni, inconcepibile in una collettività organizzata, ma subordinazione ad esso di tutte le altre funzioni pubbliche (è il vero senso del quod principi placuit legis habet vigorem).
Si coglie la diversità del percorso concettuale rispetto all’estensione ai rapporti tra funzioni pubbliche e individui dell’ordinaria funzione di giustizia, per la quale l’indipendenza dalle parti è un presupposto di credibilità.
Benchè indipendente dalla politica, il giudice delle funzioni non giurisdizionali è consapevole di controllare una diversa funzione pubblica. Ne discende che chiunque sia giudice di una funzione pubblica, esaminando la correttezza del suo comportamento, entra senza saperlo oggettivamente a far parte di questa funzione. Se per avventura affidassimo il controllo della funzione tributaria al tribunale delle imprese, come suggerisce Claudio Consolo nel suo intervento, quest’organo preposto alla soluzione di liti private diventerebbe automaticamente, e magari inconsapevolmente, giudice amministrativo.
La conseguenza di quanto sopra è che l’attenzione del giudice si appunta sulla correttezza dell’agire amministrativo, tenendo conto delle sue modalità e possibilità; in queste operazioni mentali è del tutto normale capire che la funzione sottostante è stata esercitata male, senza però avere idea di come sostituirvisi, esercitandola di nuovo. Senza l’adeguata cornice culturale di cui al punto 1 questo genera pregiudizi positivi e negativi verso l’ufficio pubblico coinvolto. Il rischio è che, senza una cornice culturale amministrativistica e tributaria, scattino innumerevoli sfumature tra giustizialismo casistico pro privato e pro ufficio tributario, a seconda di come il giudice è stato . impressionato dalla controversia. In materia tributaria purtroppo, pesa la vischiosa tradizione delle commissioni, geneticamente amministrative e imbellettate di giurisdizionalità per poterle far passare indenni alle riforme del 1972 e del 1992. E’ mancata quindi la dimensione culturale (par.1) per adeguare le appena menzionate caratteristiche generali del controllo giurisdizionale sul cattivo esercizio delle funzioni pubbliche alle specificità di quella tributaria. Occorre quindi oggi superare gli equivoci derivanti dall’aver affrontato il processo tributario con concetti privatistici, come se fosse “la soluzione finale” alle controversie sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta, ed esse non potessero essere rinviate, per molti aspetti, agli uffici tributari nella logica conformativa del giudicato amministrativo. L’operato del giudice tributario, comunque individuato, va quindi riportato all’alveo del controllo generale sul cattivo esercizio di pubbliche funzioni, con una fase rescindente e una rescissoria, che può e deve essere svolta dalla stessa amministrazione in sede di rinvio. La mancata percezione di questo aspetto, e l’idea privatistica del giudice come “soluzione finale” della controversia, sono alla radice dell’atteggiamento degli uffici tributari di notificare l’accertamento e poi far decidere il giudice, così deresponsabilizzandosi e diminuendo l’impatto sociale della propria funzione. Per liberarsi della responsabilità di decidere, si tende a notificare accertamenti sovradimensionati, ma da cui si capisca che in qualche misura il contribuente ha evaso; l’idea dell’impugnazione merito, eredità del vecchio contenzioso amministrativo, costringe il giudice a rideterminare la pretesa, sgravando comunque l’ufficio della relativa valutazione e responsabilità. Scatta così il meccanismo mentale dell’io ho fatto, passo la palla al giudice, con la difesa ostinata di qualsiasi provvedimento, e l’inutile moltiplicazione dei processi. E’ la cannibalizzazione processuale della funzione tributaria, come s’intitola questo mio video su youtube https://www.youtube.com/watch?v=ZoliQyp-zEc , che diminuirebbe se il giudice potrebbe invece limitarsi a censurare il cattivo esercizio del potere, facendo rideterminare l’imposta all’ufficio tributario, nei limiti quali-quantitativi dell’atto impugnato. In questo caso l’Agenzia non potrebbe più arroccarsi dietro la prassi sopradetta, deresponsabilizzandosi rispetto alla determinazione dell’imposta.
Si tratta quindi di superare la fuorviante impugnazione merito, eredità del contenzioso amministrativo, col suo ruolo sostitutivo del giudice, anomalo rispetto ai principi generali della giurisdizione amministrativa. Nessuno si scandalizzerebbe, certo, davanti a decisioni dirette, e sostitutive, da parte del giudice, qualora le ritenga alla sua portata, su questioni di diritto o di fatto estremamente puntuali. L’importante è che il giudice non si trovi costretto a sostituirsi all’ufficio nei lavori complessi da cui l’amministrazione ha abdicato per scaricare sul giudice la responsabilità. Chiunque sia il futuro giudice tributario a tempo pieno (par.1) occorrerà lavorare per riportarne l’opera in quest’alveo naturale della giurisdizione contro il cattivo esercizio di pubbliche funzioni.